Crespellano – Gromiljac – Sarajevo e ritorno

Crespellano – Gromiljac – Sarajevo e ritorno

Crespellano – Gromiljac – Sarajevo e ritorno

La nostra parrocchia aiuta da circa due anni un gruppo di suore nella loro missione in una porzione di Bosnia. Se volete cercarla sulla carta geografica, si trova facilmente: è tra Sarajevo e Zenica, nella zona più fredda dell’ex Jugoslavia. Nel 1984 qui (non a Maribor o a Kraniska Gora, nomi che ci suonano più familiari) fecero le Olimpiadi. Qui, nel cuore dell’Europa, a un’ora di aereo da Bologna, dal 6 aprile 1992 al 21 novembre 1995, si è consumata una delle più grandi tragedie dell’umanità, tra l’indifferenza del mondo occidentale: una città sotto assedio e la famigerata pulizia etnica, 11.000 morti e 620.000 profughi. E’ difficile semplificare, ma, scusandomi con gli studiosi, i politici e i reduci, ci provo: per intenderci sarebbe come se la Romagna decidesse che l’Emilia è sua e desse un ultimatum: tutti gli abitanti che non hanno origine romagnole devono sloggiare entro una certa data. Cosa faremmo noi emiliani? Io penserei “questi son matti. Devo lasciare casa mia? Che mi sono costruito con fatica e sudore? E poi dove andrei? Non ho mica una casa in un’altra regione.” Arriva la data dell’ultimatum e si comincia a sentire che a partire da Imola i romagnoli hanno cominciato a bombardare le case degli emiliani e ad uccidere senza pietà quelli che le abitavano. Pensi “quelli fanno sul serio… ma si fermeranno a Bologna… non avranno il coraggio… faranno un’azione dimostrativa e poi tornano indietro con qualche vantaggio che il governo di sicuro darà loro per farli smettere. A Crespellano non ci arrivano di certo.” E invece mettono sotto assedio Bologna, bruciano l’Archiginnasio, una bomba scoppia un venerdì in Piazzola, l’aeroporto è bloccato, l’albergo dei giornalisti bombardato, la sede Rai distrutta. La gente comincia a scappare. La Comunità internazionale comincia a prendere sul serio, fioriscono campi profughi nelle nazioni vicine, da Casalecchio, Zola, Crespellano, Bazzano tutti gli emiliani lasciano il più in fretta possibile le loro cose e scappano: dove? All’estero, dove vengono accolti fra l’indifferenza e l’ostilità dei locali, che si sentono “invasi” da un popolo che non ha niente, che deve mangiare, sopravvivere e poi magari addirittura lavorare… Nel frattempo i “romagnoli” sono in via Provinciale, in via IV Novembre, in via Lenzarini. Bombardano sistematicamente tutte, tutte, tutte, tutte le case. Non una rimane in piedi e se c’è qualcuno rimasto, che non è scappato, gli sparano in testa. Se è una donna, la risparmiano per poterla violentare… e Bologna continua ad essere sotto assedio, la voce del Papa si leva ad implorare la Comunità internazionale di intervenire e l’Onu interverrà… Dopo tre anni e mezzo finirà tutto. Finirà?
Chiedo scusa della crudezza del racconto, non ce l’ho con i romagnoli, era solo per dare l’idea di cosa è successo là, a 1920 km, oltre tre frontiere; e se ci si lascia dominare dalle emozioni, una dietro l’altra, qualcosa succede anche dentro la propria coscienza. Non andate a Sarajevo se avete paura di vergognarvi: io mi sono vergognato. Non andateci se vi fa paura la meditazione: è una profonda meditazione sull’uomo e la sua capacità di fare il Bene o di fare il Male che può lasciare scossi. Non andateci se, quando nel 1993 arrivarono i 1500 profughi bosniaci nella caserma dimessa tra la Muffa e Monteveglio, avete come me pensato “ma chi ce lo fa fare… Ma perché non vanno a lavorare… Sono solo zingari… Devono sbrigarsela fra di loro”. Se avete come me criticato chi, pagato dai nostri soldi pubblici, portava assistenza medica, lezioni di italiano, vestiti e cibo, state a casa.
Sono andato a Sarajevo con don Alessandro in aprile e in novembre. E in entrambi i viaggi sono stati innumerevoli i momenti in cui la mia coscienza si è vergognata. Uno è stato quando siamo entrati nella repubblica Serbska, una fetta di Bosnia abitata dai serbi: nomi di sinistra memoria, Banja Luka, Srebrenica, Derventa, Gorazde, Tuzla. Siamo nel cuore della pulizia etnica: le case dove prima abitavano i bosniaci sono bombardate, tutte e sistematicamente, quelle lungo la strada e quelle sparse sulle colline. Accanto a loro sorgono le case nuove, abitate evidentemente dai serbi di Bosnia. Magari sto guardando la casa di qualcuno che tra il ‘93 e il ’96 ha vissuto nel campo profughi tra la Muffa e Monteveglio.
Un altro è stato quando ho incrociato gli occhi con i bambini dell’orfanotrofio Casa Egitto, gestito dalle suore. Occhi allo stesso tempo allegri e tristi, allegri come lo sono gli occhi di un bambino, tristi perché raccontano un dolore, un genitore mai conosciuto, una vita che per essere normale deve dipendere da qualcuno che comunque non ti ha messo al mondo. Ho pensato ai miei figli.
Un altro è stato quando abbiamo incontrato per caso don Natale, il prete che viene a confessare a Bazzano per Natale e Pasqua e gli ho chiesto della guerra, senza capire che è un nervo scoperto, che le cicatrici sulla pelle sono rimarginate, non così le cicatrici dell’anima.
Un altro è stato quando ho visto le foto dei nostri militari con i bambini e suor Annamaria che legge una letterina di un bimbo a Babbo Natale che chiude con “speriamo che vengano a trovarci gli italiani”. Quanta distanza con le nostre diatribe parlamentari.
Un altro è stato quando ho parlato con le suore, Annamaria, Liberia, Genoveffa, Marina… che aiutano tutti, anche i musulmani, senza chiedersi prima in quale Dio credono. Ho pensato al latente razzismo che c’è anche in noi credenti.
Un altro è stato davanti alla biblioteca di Sarajevo incendiata (due milioni di libri in fumo) come spregio alla cultura, proprio davanti al ponte dove uccisero il principe Francesco Ferdinando dando il pretesto per l’inizio della Prima Guerra Mondiale.
Allora non esistono più le difficoltà alla frontiera, il paesaggio fiorito in primavera, tre giorni di neve, la batteria del pulmino morta, il metano a Zagabria, la cucina, eccetera e rimane il pensiero di quello di cui è capace l’uomo. Perché un conto è tirare una bomba al mercato e ammazzare una trentina di persone mentre fanno la spesa, un conto è ammazzarle una per una sparandogli un colpo in testa e un conto ancora è fare, come in Bosnia, l’uno e l’altro. Non è facile accettarlo, ma è successo. Soprattutto non è facile accettare la propria indifferenza quando è successo: loro erano alla Muffa! A 2 Km da casa mia!
Dio è amore e noi siamo chiamati ad amare per rendere presente il suo Regno nel tempo e nel luogo in cui viviamo…Come è facile ritagliarselo da soli il tempo e il luogo in cui decidere (noi, non Lui) dove, chi, quando e quanto amare per rendere presente il suo Regno. Come è facile la solidarietà a mille chilometri. Levarsi il pensiero con un cambio degli armadi, che fra l’altro produce un sacco di vestiti che, fra l’altro, non sai dove mettere quindi fa anche comodo avere un terminale di smaltimento in parrocchia. Oggi andiamo fino là, ma loro fino a 12 anni fa erano qua, alla Muffa, erano ai nostri semafori, i bimbi erano nelle nostre scuole. Mi viene in mente la parabola del Buon Samaritano… Siamo abilissimi a cercare il prossimo che ci fa più comodo aiutare, ma il Vangelo racconta di due nemici e uno aiuta l’altro. Fino ad oggi cercavo di immedesimarsi nel nemico che aiuta, nel Samaritano che aiuta il Giudeo, e dicevo “io che sono forte devo aiutare il debole anche se è mio nemico” (sottinteso: così sono bravo!). Incontrando quella gente ho provato invece di immedesimarmi nel nemico che riceve aiuto. Sono lì per terra, mi hanno massacrato di botte, i miei amici passano senza neanche guardarmi e chi si ferma ad aiutarmi? Il mio peggior nemico, mi tira su, mi cura, mi porta in albergo e mi lascia anche dei soldi. Penso alla schiera dei miei “nemici”. Non ne ho, magari ho solo persone che detesto… le  analizzo ad una ad una e scelgo quella che detesto di più e mi immagino che sia lei (lui) ad aiutarmi. Saprei accettarlo? Che rivoluzione nel mio cuore porterebbe questo gesto.
A Sarajevo succede questo. Succede che alcune suore in gamba aiutano tutti senza chiedersi da che parte stanno, e lo fanno in nome di Dio. Vi assicuro che è emozionante dal gran che è bello. Essere capaci di amare tutti senza scegliere chi, ma farlo senza distinzione alcuna, penso che sia la forma più alta di libertà e di sintonia con Dio. Non credo che ne sarò mai capace, ma Dio mi ha fatto vivere l’emozione di provarci… forse una speranza ce l’ho anch’io e per questo ringrazio Lui, ringrazio Sarajevo.

Fabio Federici
Dal bollettino parrocchiale del Natale 2007